Dal 1936 al 1946
LA VERA E PURA ESSENZA DELLA VITA
La vita di Virginio Bianchi narrata dalla figlia
Capitolo 4 / 6
1936 - Il matrimonio con Enrica Biagi
Quando nel febbraio 1936 Enrica e Virginio si sposano, nella chiesetta della Spina a Pisa, la casa non è ancora pronta.
Ma i due hanno deciso di rimanere ancora un po’ nell’abitazione di lei, finché i lavori non siano terminati.
Il viaggio di nozze in Sicilia, con prima tappa a Roma, rimarrà indimenticabile; come i “carciofi siciliani” fritti e serviti sulla terrazza dell’albergo palermitano.
Enrica riderà poi spesso, ripensando alla “prima notte”, quando il suo marito grande e grosso aveva indossato la canottiera di lei con i pizzi e le spalline di raso perché, avendo dimenticato di portare la propria, non voleva strofinare le spalle nude sulle “lenzuola di un albergo”.
Poco dopo il rientro a Massarosa, Enrica rimane incinta e, per Virginio, si aprono le porte del paradiso.
Egli, che fin da piccolo ha avvertito cosí dolorosamente l’assenza della madre, quasi impazzisce di gioia nel vedere la sua “Ghiga” arrotondarsi a poco a poco!
Pensare che avevano tanto scherzato sul fatto di essere probabilmente già troppo “vecchi” per mettere al mondo un figlio. E invece, questo miracolo!
Virginio scrive persino un racconto, tenero e divertente, intitolato “Il marito della Signorina”, che verrà pubblicato su una raccolta di racconti dell’epoca, denominata “Firme alla ribalta”.
Cosí affronta coraggiosamente anche le ire del padre taccagno riuscendo a farsi prestare ancora denaro per finire la casa, che sarà magnifica.
E, quando Enrica andrà a partorire a Pisa, in casa della mamma Ida, egli le scriverà una lettera veramente toccante.
La piccola Alberta Ida Rossana, cosí chiamata per non scontentare il nonno paterno e la nonna materna, ma per contentare con il terzo nome anche i genitori, nasce dunque il 20 dicembre 1936, in una casa di Pisa, in Via della Rosa, dove, nell’appartamento adiacente, abita un letterato e poeta piuttosto noto: Bruno Fattori.
Insegnante al Liceo Ginnasio e sposato con una donna semplice e molto affettuosa di nome Ada, la quale insiste per fare da madrina alla bimba, Bruno diventerà uno dei migliori amici di Virginio, il quale, pur non condividendone le idee politiche, nutrirà sempre per lui una profonda stima.
Il padrino di Rossana, sarà invece lo zio Giuseppe, che, messe da parte le liti con il fratello, amerà quella piccolina in maniera straordinaria e, dato che non avrà figli propri, la seguirà affettuosamente finché avrà vita.
Siamo cosí arrivati al 1937, quando ormai la piccola famiglia di Bianchi abita nella nuova casa, in Via Del Pastore numero 4, a Massarosa.
Nel grande giardino, situato proprio dietro il Palazzo Comunale, Virginio ha piantato quattro abeti, che dovranno crescere insieme alla sua bimba, la quale già zampetta avanti e indietro, con un grande fiocco sulla testolina, appiccicato ad un ciuffetto di capelli fini e biondi. E c’è una bella pergola di glicine sotto la finestra della cameretta di Rossana, ed un altro grande pergolato di viti appoggiato al muro di recinzione del giardino, giú in fondo, dalla parte del Comune. Quanto si agita e traffica quel papà, per non far mancare niente alle sue “donnine”!
Ma non basta.
Enrica ha la scuola proprio vicino a casa ma a lui tocca badare alla piccina e ad altre cose necessarie all’andamento domestico; gli resta poco tempo per dipingere.
Come fare per restituire il denaro che si è fatto prestare?
Cosí decide di tornare a Milano a trovare vecchi amici che potrebbero aver bisogno del suo lavoro. Ma la situazione è molto diversa, ora che quasi tutti si sono assoggettati alle direttive del Partito! La fatica per trovare un’occupazione redditizia è veramente grande e Virginio esprime la propria angoscia negli scritti che invia a casa.
Dovrà contentarsi di un ruolo poco importante in una ditta pubblicitaria, che allestisce gli stands nelle Fiere o esegue affreschi nei locali alla moda.
Tiene un’agendina tascabile dove segna giornalmente tutte le spese sostenute, una per una, preoccupandosi per l’ombrello perduto sul tram e di non avere denaro a sufficienza per le “scarpe rosse” con il tacco alto che avrebbe voluto regalare alla moglie.
E non vede l’ora che arrivi il sabato, per tornare a casa dalla sua piccolina, che dormirà nel lettone insieme a lui, con “le gambine” sul suo stomaco!
1939 - Lettere da Milano
È quasi primavera ma Virginio, a Milano, lavora in uno studio sito in un seminterrato e vede il sole soltanto quando esce dal lavoro, alle dodici e trenta.
23 maggio 1939
“La vista mi si stanca” - scrive - “e temo l’umidità del locale… La vita qui costa in maniera fantastica. Il denaro scappa come sabbia tra le mani ed anche stando modestamente, se ne vanno 25 lire al giorno… Faccio tutti i miei conti giornalieri ed il bilancio è disastroso. Quasi tutte le sere ceno in casa di Di Ciolo (un amico scultore) ma tu capisci che non posso andare a mani vuote e spesso spendo piú che andare fuori…
La vita a Milano è convulsa, per me… non sento piú le gambe…
Ho dovuto trascurare un po’ tutte le cure e per ora non ho fatto piú iniezioni né altro.
Dopo le feste pasquali, che spero di passare con voi, sarà bene intenderci su tante cose di alta necessità…
La salute mi pare che non vada troppo bene…
Tante cose che in provincia vengono dipinte come spaventose, qui non risultano affatto deformate: non ci si accorge neppure di essere in guerra.
Hai freddo?... E come fa Rossana ad alzarsi presto, la mattina?... Poverina, chissà come sbadiglia! La notte, stai attenta che non si scopra e sorveglia in tutto e per tutto che non si esponga a dei pericoli! A volte, mi viene in mente la curva davanti al Vignali: vengono giú i ciclisti come saette... e Rossana attraversa la strada all’improvviso! E mi metto le mani nei capelli, pensando a continue disgrazie!
Il non avervi vicino, mie care creature, vuol dire avere il vuoto completo intorno a me...”
Negli intervalli durante i quali Virginio torna a Massarosa, se ne va a dipingere paesaggi, insieme alla sua bambina che ne approfitta per fare capriole sull’erba.
Porta con sé un grande ombrello coloniale, il cavalletto con la tavolozza ed i colori e, una volta sistemato il cavalletto e poggiatavi la tavoletta da dipingere, prende le misure e calcola le distanze utilizzando la lunghezza della matita o del carboncino, strizzando gli occhi, dietro le lenti divenute ormai una necessità.
Nel 1940, dipinge un’opera grandiosa da inviare al concorso “La battaglia del grano”, che si terrà a Cremona. Per le figure maschili, fa posare un paesano soprannominato “Ghiaccina” e, per quelle femminili, la moglie Enrica.
La tela è talmente grande che deve chiedere il permesso di poterla dipingere ed incorniciare nella vecchia chiesina di San Rocco, sulla via Sarzanese e, una volta terminato il quadro, dovrà affittare un intero vagone ferroviario per spedirlo.
Virginio non vince il concorso ma l’opera piace molto, viene segnalata ed inviata ad Hannower per una seconda esposizione.
Non tornerà piú indietro, poiché sarà acquistata dall’On. Farinacci e ne verranno perdute le tracce.
Ma rimangono un bozzetto a colori, di proprietà di un antiquario, ed una fotografia in bianco e nero del quadro terminato (che fu anche pubblicata sul catalogo della mostra e su alcuni quotidiani), a testimoniare l’importanza del lavoro.
Nel 2016, tre anni dopo la morte dell’autrice, sono stati rinvenuti due dei tre frammenti in cui l’opera venne suddivisa dopo la seconda guerra mondiale, eliminando la parola “Duce” riportata sul carro nella parte centrale del dipinto.
Il frammento piú grande è stato esposto nella mostra “Il Regime dell’Arte, Premio Cremona 1939-1941”, a cura di Vittorio Sgarbi e Rodolfo Bona, tenutasi al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona, dal 21 settembre 2018 al 3 marzo 2019.
Bianchi vive però dolorosamente la contraddizione di sentirsi avverso al regime fascista e, contemporaneamente, dover tirare avanti con denari guadagnati pitturando opere che celebrano Mussolini. In piú la moglie, essendo insegnante, deve anch’essa sottomettersi e vestire la tipica uniforme fascista, con mantello nero e chepí, per ottenere almeno uno stipendio sicuro.
Già anni addietro, durante le elezioni, Virginio si era rifiutato di recarsi in Comune a votare e vi era stato portato di forza a braccia da due fascistoni del luogo.
Ma era riuscito a fuggire dalla finestra e a correre lontano, verso il padule, dove si era nascosto per alcuni giorni.
In molti erano al corrente di questa sua profonda avversione, tanto che, anche Lorenzo Viani, prima della sua morte avvenuta nel 1936, parlando con un tipografo massarosese, un certo Salarpi, aveva detto del Bianchi : “Ah... quello è molto bravo!... ha una sola cosa meno di me... la tessera del Partito!”
Ed ora, con il precipitare degli eventi, gli amici piú cari sono rimasti in pochi.
A Stiava, c’è ancora un certo Pietro Lotti che condivide le idee di Virginio e, ogni tanto, gli commissiona anche qualche dipinto.
In casa Lotti, rimarranno agli eredi: un grande ritratto a tempera di Matteotti, il ritratto di Rosy (la moglie di Lotti prematuramente scomparsa) ed alcuni piccoli paesaggi degli anni ’20.
Data questa situazione, per evitare disagi alla famiglia e cercare sbocchi diversi, Bianchi insiste nel voler lavorare al nord e si illude di risolvere i suoi molti problemi sperando in un nuovo lavoro che avrebbe dovuto iniziare a Monza.
Ma le ultime lettere scritte da Milano alla moglie, risalgono solamente al 1941.
Dopo, egli è di nuovo a casa e ricomincia a cercare… cercare…
Frattanto, crea ancora alcuni quadri bellissimi: i “Crisantemi”, i “Gigli”, “Il Fornacione”, “Gli Sterpeti” e “Padule”.
Quest’ultimo, come egli scriverà sul retro, parecchi anni dopo, particolarmente amato, poiché - egli dirà - “dipinto quando ancora avevo qualche speranza”.
1942 - La “Beta Film”
Poi, finalmente, nel 1942, ecco un lavoro per lui! A Firenze, cercano un disegnatore di cartoni animati. Virginio si precipita alla “Beta Film” e viene assunto.
Non sarà una gran paga, ma il suo cuore scoppia di soddisfazione pensando ai piccoli regali che potrà fare alla moglie e a Rossana, che già frequenta la scuola elementare e inventa monologhi che recita da sola in giardino, indossando i vestiti della mamma.
Cosí, ogni sabato, Bianchi torna a Massarosa, ogni volta con una o due marionette per la bambina e, al lume di candela, per via del coprifuoco, diverte le sue “donnine” imitando le voci di Pulcinella, Arlecchino, la Strega e Fagiolino.
E la domenica, racconta della proprietaria della casa dove sta a pensione, (una bella casetta - dice), che è una signora tedesca sessantenne, molto gentile. E parla dei colleghi di lavoro, della “Beta Film” e di quanto sia apprezzato dai dirigenti.
Addirittura c’è la possibilità che lo promuovano vice direttore; ed egli sembra quasi felice.
Ma i padiglioni delle orecchie di Virginio si assottigliano sempre di piú e lasciano trasparire la luce incerta delle candele, mentre Enrica toglie dal forno della “cucina economica” una teglia appena unta con un po’ di margarina e ripiena di crusca impastata con latte, un cucchiaio di zucchero e lasciata cuocere per una mezz’ora. Virginio allora si alza dalla sedia e comincia a ballare girando intorno, come fosse un orso e canta, con gli occhiali appannati dalle lacrime “La mamma ha fatto il dolce... la mamma ha fatto il dolce!..”
Nelle lettere inviate da Firenze durante la settimana, traspaiono le tante difficoltà quotidiane: i documenti richiesti al Podestà di Massarosa per l’abbonamento ferroviario, che tardano ad arrivare; la tessera con le cedole alimentari a nome della moglie, portata per errore a Firenze invece della propria... quattro lire perdute…
Nonostante ciò, un sabato arriva a casa con il “teatrino” per le marionette, tutto intero, da montare. Ha ottenuto la promozione che aveva tanto desiderato! E si mette a dipingere gli scenari, allegro come un fringuello.
Ma anche questa apparente serenità sta per avere fine.
La guerra ora è alla soglia di casa e, una sera, Virginio torna improvvisamente ed è sconvolto.
La “Beta Film” non esiste piú!
Le bombe cadute sulla stazione ferroviaria di Firenze, hanno distrutto anche l’intero edificio dell’azienda.
Addio lavoro... addio sogni e speranze!
Dopo pochi giorni, viene bombardata anche la stazione di Viareggio, proprio mentre Virginio si trova lí in cerca di una nuova occupazione. La moglie e la figlia di Bianchi, assistono all’evento da un piccolo colle vicino a casa.
Le fiamme altissime, i boati, il rombo degli aerei, terrorizzano la piccola Rossana che grida a piú non posso e continuerà a gridare fino a quando il papà non sarà tornato a stringerla tra le braccia, a rassicurarla.
Ora bisogna proteggersi, nascondersi... far sparire i pochi oggetti di valore che ancora rimangono dei regali di nozze; e i giocattoli della bambina.
Virginio chiama in aiuto un bracciante del luogo, detto “Lilli” e si mette a scavare due grandi fosse.
Una vicina al muro di cinta, sotto la pergola dell’uva e l’altra, molto piú grande, fra il pozzo e lo studio, sotto l’albero del fico.
Nella piú piccola sotterra il vasellame, le argenterie, i giocattoli.
L’altra diventa un rifugio per circa sei persone, con le panche di legno ed i travicelli, sempre di legno, per sorreggere il terreno sovrastante.
La notte, quando le sirene iniziano a suonare per segnalare il passaggio degli aerei, Enrica ed il marito si alzano in fretta dal letto, rinfasciano la bambina dentro la mantella nera della mamma e corrono giú, dentro quel tunnel umido e freddo, dove rimarranno accovacciati, spiando le luci dei bengala che disegnano grappoli nel cielo, fino al cessato allarme.
Altre volte, invece, correranno verso i boschi della “Pieruccia” per nascondersi tra gli alberi ed i cespugli, lontano dalla zona abitata, con molti altri paesani.
E reciteranno o seguiranno solo con la mente il rosario e le giaculatorie, intonate da qualche pia donna della zona.
Poi, un bel giorno, arrivano le truppe tedesche ad impiantare un quartier generale nelle scuole elementari di Massarosa ed a spadroneggiare in ogni occasione.
Virginio che, come abbiamo detto, era stato dichiarato inabile al servizio militare, è uno dei pochi uomini rimasti in paese; ma ai tedeschi non interessa il suo stato di salute.
Lo prelevano dalla sua casa, gli impongono di spaccare i mobili della scuola per ricavarne cartelli stradali: lo obbligano a caricarsi sulle spalle tutto quel legname e portarlo nel suo studio, dove dovrà lavorare sodo... per giorni e giorni, sotto la minaccia delle armi.
Non è piú vita...
Bianchi decide di fuggire, su verso i monti, dove già sono sfollati alcuni suoi conoscenti. Trova un ometto con un carro ed un asinello e, di primo mattino, la moglie Enrica prepara le valigie e arrotola lenzuoli e coperte che vengono caricate sul carro insieme alla figlioletta, troppo gracile per affrontare a piedi la salita del Monte Pitoro.
E via, verso Montigiano; il conducente tira l’asino riluttante per le briglie ed i due coniugi spingono il carro dalla parte posteriore, con grande fatica.
Montigiano e Fibbialla
Arrivano a destinazione nella tarda mattinata, con il sole già alto che batte spietato sul campanile dell’antica chiesetta, circondata da campi aridi, coltivati a patate.
La casupola che li ospiterà è piena di polvere ed infestata dalle pulci, che festeggiano i nuovi inquilini saltando qua e là a piú non posso e, specialmente, sulle loro gambe.
La proprietaria è Mariuccia, una vecchietta vestita di cotonina grigio sporco, con la pezzuola in testa ed un grembiule a fiori scuri. Ma quello che di lei colpisce di piú, è il naso quasi inesistente, che sembra rosicchiato dai topi.
Virginio si mette a preparare un letto per la famigliola ma nella casa non ci sono reti o brande. Soltanto un saccone gonfio e scricchiolante di foglie di granturco, che verrà poggiato in seguito su otto casse di legno, disposte in maniera da lasciare uno spazio vuoto al centro.
Un nascondiglio che Virginio pensava di utilizzare nel caso fosse arrivato improvvisamente un drappello tedesco, ma che, per fortuna, non userà mai; altrimenti ci avrebbe rimesso la pelle!
Infatti, alla prima ispezione delle SS, armate fino ai denti, un soldato era andato subito ad infilare la baionetta nel saccone, scoprendo quel vano piuttosto sospetto e terrorizzando la bambina, convinta che il papà si trovasse proprio lí dentro.
Invece, Virginio era stato trascinato dagli altri sfollati giú nel bosco, dove erano state scavate delle tane, come quelle degli animali selvatici e dove gli uomini dormivano, al freddo e nell’umidità.
Era, forse, l’unica via di scampo, ma non per lui, che sentiva acuirsi i dolori nelle articolazioni fino ad urlare per lo spasimo; ed ogni volta che i compagni insistevano per portarlo giú insieme a loro, piangeva ed implorava.
“Lasciatemi morire! Lasciate che mi ammazzino, quei cani bastardi! Non vi accorgete che non ce la faccio piú?!”
È talmente arduo tirare avanti soltanto con qualche patata e un po’ di verdure selvatiche, bollite in poca acqua, perché anche quella manca; e si deve andare ad attingere con i secchi da una sorgente lontana, in fondo ad un burrone!
Un cucchiaio di olio, quando si trova, ed un pizzico di sale che il fratello Giuseppe tiene da parte apposta per Virginio e gli fa avere per vie traverse.
E magari, mentre la famiglia (raramente) si riunisce a tavola, dal soffitto della cucina, ricoperto da strati di mosche sovrapposte, se ne stacca un grappolo e finisce proprio in una delle tre scodelle, come ultimo “condimento”!
Dietro la casa, un albero di pere; uno di mele “giugne” e qualche vite con uva stenta.
È permesso raccogliere solo i frutti caduti a terra, troppo maturi o con il baco e, normalmente, sono i bambini ad arrivare prima dei grandi, per approfittare di quella “cuccagna”!
Però anche qui non si può restare.
Un brutto giorno, un drappello di tedeschi arriva in paese ed incendia la chiesa. Stanno cercando chi ha ucciso uno dei loro soldati ed è iniziata la rappresaglia.
Enrica raccoglie le poche suppellettili rimaste e, questa volta, si mette il “cèrcine” sulla testa come le contadine per portare la valigia sul capo.
Dei tre, è la prima a partire, con le altre donne sfollate, verso Fibbialla, un altro paesino nascosto tra i boschi.
Virginio le seguirà piú tardi, con la bambina per mano, cupo e guardingo, attento ad ogni rumore.
Piú volte i due dovranno abbandonare il sentiero, nascondersi tra i cespugli e trattenere il fiato. Quando, alla fine, compariranno le prime case, l’uomo tirerà un grosso sospiro di sollievo e dirà alla figlioletta: “Meno male che hanno tolto dalla strada gli impiccati!”
Infatti i tedeschi avevano impiccato alcuni ostaggi con il filo spinato e li avevano lasciati appesi lungo la via, affinché tutti potessero vederli!
A Fibbialla, vengono ospitati nella sacrestia della chiesa, dove già sono rifugiate molta altre persone di Massarosa tra le quali il cugino di Virginio, Lorenzo Renato, con la moglie Ele - che da poco ha partorito una bambina - e la moglie del fratello Giuseppe, Emma, sorella di Ele.
Tutti dormono su coltri o sacconi distesi sul pavimento. Sono ventuno persone, per lo piú anziani, donne e bambini.
Gli uomini rimangono fuori, nelle solite tane scavate tra l’erba alta, sulle “piane” degli uliveti.
Enrica e Rossana avranno un trattamento di riguardo: verranno collocate in una piccola stanza, al piano superiore della canonica, con il gabinetto adiacente ed una finestrella minuscola, coperta da una graticola bucherellata, che consente una parziale veduta della navata centrale della chiesa.
Si torna a casa
Continua ancora per un po’ la solita vita: dormire sotto terra, patire la fame, stare in compagnia della paura, notte e giorno.
Osservare dalla grata della piccola camera i soldati feriti che si rifugiano nella chiesa, lí, sulle panche, come animali randagi.
Ed infine, un giorno memorabile, con scampanii a non finire e tutta la gente che si riversa esultando nella piazzetta davanti alla chiesa. E pochi soldati Americani, alti e biondi come il sole, che distribuiscono sigarette e cioccolata.
Le persone si abbracciano, ridendo e piangendo ad un tempo. È finita... finalmente finita, questa guerra maledetta! Tra pochi giorni, la famigliola di Virginio sarà a casa!
Prima scenderanno gli uomini, a verificare lo stato delle abitazioni ed accertarsi che a Massarosa non vi siano piú pericoli; quindi, tutti gli altri. La strada da fare a piedi è lunga, ma ormai la stanchezza non si sente piú.
È una processione in cammino attraverso i boschi, che scende dalla parte occidentale dei colli fino a raggiungere “la Croce”, che domina dall’alto il centro del paese.
E, appena fuori dalla boscaglia, ecco gli olivi, con le larghe spianate a gradinata!
E tutti giú di corsa, saltando a piè pari con il fiato corto e gli occhi lucidi, mentre appaiono le tegole rosse della case!
Finché, a pochi passi dalla casa di Virginio, posta proprio in fondo alla scorciatoia del sentiero, appare un soldato di colore, alto almeno due metri, che distribuisce fette di pane, perfettamente quadrate... e cosí bianche!
Bianche come mai nessuno, a Massarosa, avrebbe potuto immaginare; e talmente soffici, da sembrare impastate con petali di fiori…
Il soldato guarda per un attimo la piccola Rossana e sgrana gli occhi grandi ed arrossati; poi si mette a ridere e la alza improvvisamente da terra per prenderla in braccio e confrontare meravigliato la pelle chiarissima della bambina con la propria, scura e indurita.
Ma Virginio è lí, pronto a togliere la figlioletta da quelle braccia possenti, spaventato da cotanto ardire e già, di nuovo, in apprensione.
I giorni corrono via veloci, nel ritrovare le cose credute perse e le persone che da tanto non si erano viste.
Piano piano, come un amante che si riaccosta all’amata dopo una lunga malattia, Virginio timidamente si riaccosta alla pittura.
I primi quadri vengono dipinti su lenzuola aggiuntate, scuri di vecchie finestre, tavolette di compensato screpolate.
Ma il risultato è meraviglioso, poiché le opere di questo periodo raggiungono livelli di poesia forse mai contemplati prima.
I paesaggi del “Vecchio frantoio” e i “Cipressi dietro la Caserma”, il “Ritratto della figlia” e “La Madonna della pace”; alcune splendide nature morte come “Il pane e il vino” ed altre ancora, rimangono tra le sue cose migliori.
In paese c’è sempre tanta miseria, ma lo spirito è alto.
I giovani sfogano la grande gioia di essersi ritrovati in vita, ballando come forsennati nelle balere improvvisate e, a poco a poco, si creano a Massarosa nuove occasioni di lavoro.
La ditta Apice riprende l’attività ed il sarto Dino Giannini inizia una produzione di tute azzurre da lavoro con pettorina e bretelle, come quelle degli americani.
L’amico Virginio sarà l’autore del fortunatissimo marchio della ditta Giannini: un simpaticissimo paperino giallo, con le alucce che sporgono festosamente dalle bretelle.
La “Jolly Work” diverrà in effetti una delle aziende leader del settore, come altre che verranno dopo, sempre sul territorio massarosese.
Anche Virginio avrebbe voluto creare una fabbrica di giocattoli di legno e prepara perciò un interessante campionario lavorando nel capannone dell’amico “Moschino” per tagliare e rifinire i pezzi, che poi vernicia nel giardino di casa.
E quando finalmente inizia la fase di montaggio, la soddisfazione nel vedere la riuscita e la bellezza di quei giocattoli che si muovono facendo tintinnare sonagli e campanelli, è davvero grande.
Ma, dopo alcuni giorni, leggendo il giornale, Bianchi scopre che stanno arrivando in Italia giocattoli giapponesi fatti di latta, a prezzi irrisori.
Di nuovo, è il crollo delle sue illusioni; ed egli si dispera, dicendo che se avesse voluto fabbricare cappelli, tutti sarebbero nati senza testa! Comunque, si impegna molto in ogni sua attività, per tirare avanti.
La sera, dopo cena, prepara tavole illustrate con gli acquerelli, che vorrebbe proporre al Corriere dei Piccoli. Disegna vignette umoristiche, scrive racconti ed inizia persino un romanzo autobiografico che intitola “Il Chiodo”, alludendo alla sua magrezza giovanile.
Il giorno, invece, quando il tempo lo consente, riprende cavalletto ed ombrellone e... via, in “plein air”, a dipingere albe e tramonti; e gli argini dei fossi e le risaie, ormai abbandonate dalle mondariso, che ora vanno tutte a lavorare “in fabbrica”.