IL MARITO DELLA SIGNORINA
Racconto di Virginio Bianchi - Scritto a Massarosa nel 1936
Dall’Antologia “Firme alla Ribalta”, Edizioni Vedetta, Milano, 30 novembre 1937, p. 11
Picchiettare alcune ore del giorno sui tasti della macchina da scrivere, sembra una necessità, per quell’òmo che si vede dalla finestra che dà in casa e, piú propriamente, nella cucina della signorina.
La macchina da scrivere è lí, sul tavolo coperto dalla tovaglia a scacchi azzurri e bianchi, al centro della quale un vaso di terraglia rossa fiammante, lascia sprigionare un cespo di biancospino.
Respira anch’essa come l’òmo, il profumo del brodo che bolle vicino, sulla stufa di ferro; una vecchia “Parigina” che alza un braccio tubolare contorto ed anellato come un “centogambe” conficcato nel soffitto, a travicelli al latte di calce.
L’ òmo è curvo ed intento.
Macchina ed òmo sono un monoblocco concentrico, a spirale, il cui centro è la macchina e la coda sfuggente la schiena dell’òmo massiccio ed occhialuto, che picchia e picchia soffiando come un mantice e sudando un po’, perché anche il caldo si fa già sentire dal di fuori.
La signorina non c’è: è a scuola con i suoi alunni della prima classe. Ha fatto le faccende di casa alla svelta, ha tinto di rosso le labbra, corretto col lapis un piccolo neo sul labbro superiore, tratteggiate le ciglia con un segno tagliente, arrossate le guance con la cipria di uno scatolino tutto speciale, laccato, con lo specchietto nel coperchio; e se n’è andata dopo aver detto - “Ciao!” - al suo òmo che le ha dato un bacione lungo come i fili del telegrafo, che tagliano i cirri mattutini sull’orizzonte.
“Cosina, guarda... dimenticavi il registro!”
“Grazie, caro!” - Un buffetto.
E l’òmo è tutto felice e raggiante, perché la “signorina” sua moglie è la piú cara creatura del mondo.
La signorina è a scuola.
Da otto anni vive in paese in una casa piccina piccina, con la cucina che ha la stufa di ferro, il tavolo con la tovaglia a scacchi azzurri e bianchi, il vaso di terraglia rossa fiammante, la madia antica, che sa di sfoglia e d’uova sode.
Anche l’alluminio brilla sulla parete di fondo ed un piccolo centro drappeggia uno scaffaletto, con i barattoli del pepe, del sale, della cannella e delle bullettine di garofano.
Tutto giocondo nella piccola casa. Ora come un tempo.
Ora che la signorina s’è sposata con quell’òmo che scrive sempre; e non si sa il perché.
La signorina è signora. Da pochi mesi è sposata, ed ancora conserva il titolo di signorina.
“Come sta, signorina?... E suo marito? Perdoni, sa!
Lei sarà sempre la signorina, per noi; come chiamarla altrimenti!?...
Otto anni non si dimenticano cosí presto! Anni di gioconda e rispettosa comunanza con il vicinato, di comari lente e vecchie, di uomini barbuti, di snocciolatrici di rosari che tutto sanno, di mocciosetti e mocciosette, che schiamazzano, o cantano, o ridono, o saltano come caprioli, anche se la “maestrina” ha da scrivere lettere per le comari che hanno un figlio o il marito in Africa; o un reclamo per il Catasto, o una supplica al Federale, o una domanda per la Maternità.
Come chiamare signora una signorina che non si può dimenticare?
E la signorina scrive ancora per il vicinato, spessissimo; e parla anche con esso di suo marito.
“È tanto buono mio marito!... ” - Dice.
E quel “marito” esce dalla bocca ritoccata di rosso, rivestito di un bell’abito dolce; sbarbato ben bene ed accarezzato sulle mascelle forti. Perché la signorina vuole molto bene a quel marito che scrive sempre; grosso, scontroso, sensibilissimo e casalingo, un po’ calvo e con la pancetta incipiente.
Il vicinato è concorde nel trovarlo un po’ flaccido, un po’ orso; ma il vicinato sarà sempre un vicinato!...
C’è la dose del maligno, il pepato del linguacciuto, l’occhio del curioso, la corona della pinzochera.
“Cosa fa quel marito, tutto il giorno?... ”
Tutto il sole dell’orto se lo pappa quell’òmo che picchietta su quella macchina d’inferno!
La signorina è sua, la stufa è sua, la tovaglia ed il biancospino pure!
L’asino protesta pur esso, ragliando alto. Le galline starnazzano.
C’è anche un porco che rovescia ogni cosa, in cortile!
“Ricorda, signorina, l’altr’anno, a primavera?... Questi alberi erano in fiore, come non mai!
Queste galline facevano tante òva... E com’erano grosse!... Che differenza, quest’anno!
Ricorda l’altr’anno... la radio?... Non la suona piú, lei, la radio?
Sarà quell’òmo?... Saranno guaste le valvole?!... Sarà il temporale?
La radio è fioca.
Si mormora del marito, che la tiene bassa di tono perché ha da scrivere... e la musica gli sciupa il filo!
“Immè, quell’òmo!... Che accidente scrive?... Una volta si ascoltavano di belle canzoni!... ”
Si mormora anche che sia la signorina, che pensa piú ai bottoni del marito che alle manopole della radio.
Si mormora anche che qualche cosa si agiti già, sotto il grembiule della signorina; che sembra una rondine, inguainata cosí di nero e con quel collettino bianco d’amido!
E la sera cala sul cicalío del piccolo mondo; si smorzano i lumi e si raggiungono le concilianti lenzuola, con nel naso il profumo delle mele cotogne, schierate sul canteràno e sull’armadio.
Anche nel letto si parla della signorina.
“Di’... Rocco!... Ce la vedi tu “signora” la signorina?... Mi pare un sogno!...”
Ella c’è ancora; e non c’è piú!
Quell’òmo ha preso tutto con sé: sole, orto, radio, stufa e signorina.
Picchietta su quella macchina d’inferno, la noiosa canzone del possesso; distruggendo a palmo a palmo il piccolo mondo delle consuetudini di quei poveracci... Rubacchiando tutto per sé, il terreno con tanto amore preparato.
La signorina è assorbita da lui, anche se adesso un sorriso nuovo le vedi in faccia, anche se quel piccolo nèo sul labbro superiore è piú coltivato e piú birichino di prima; anche se i seni sono piú colmi di prima, ch’erano acerbi e vizzi, ed il grembiule piú grande e gonfio.
La signorina c’è ancora. Ma come chiamarla?... Signora?... È impossibile! Le illusioni (lasciateci ancora questo balsamo del cuore) vanno coltivate.
Il vicinato vuole ancora parlarle, a tutte le ore; confidarle tutti i segreti, le ansie e i dolori. Chiederle ancora tanti piccoli prestiti: un po’ di sale, un po’ d’olio, un po’ d’aceto.
“Stasera andremo alla bottega... e glielo restituiremo... eh... signorina!”
Ed ella usa dare ancora sorridendo: donare, riprendere, ringraziare. Piccolo mondo d’altri tempi e che non muore, anche se quell’òmo ingombra ogni cosa, col massiccio delle sue spalle.
Non morrà, perché una dolcezza nuova canta nella primavera incipiente attanagliando cuori e cose.
La signorina è di tre mesi: ha conati di gravidanza.
È tanto felice lo scontroso marito!
Tralascia di picchiettare; s’affaccia alla finestra e chiacchiera con la Mimmi, con l’Elena, con la “Pulce”.
“Come sta la signorina?”
“Bene !” - Risponde il marito, rubicondo e chiazzato di Paradiso.
“Perdoni... sa...” - dice la “Pulce” - “Per noi la signora resterà sempre la signorina!”
“Sempre?...” - dice l’òmo.
“Anche quando ci sarà quell’Angioletto?... ”
“Lo culleremo a turno.” - Risponde il coro delle comari. - “Ma la signora sarà sempre la signorina!”
“Non esageriamo... ” - dice l’òmo - “Ho l’impressione che mia moglie, adesso, sia piú signora che signorina!... Io me ne intendo!... ”La Mimmi dà nel gomito alla “Pulce”: “Si diceva ch’era un orso frollo... Che stupide!... Quello è un òmo!... E com’è istruito!
Le sa tutte!”
Virginio Bianchi