Dal 1899 al 1924
LA VERA E PURA ESSENZA DELLA VITA
La vita di Virginio Bianchi narrata dalla figlia
Capitolo 1 / 6
Premessa
Una donna seduta sopra una sedia impagliata, con un bambino sulle ginocchia ed un altro in piedi, vicino a lei. Gli abiti sono chiaramente del primo Novecento e, dall’abbigliamento, è difficile capire il sesso dei piccoli.
Il tempo ha quasi cancellato i loro volti, le espressioni, da una vecchia fotografia; ma la giovane che la sta osservando attentamente, sa bene che si tratta di due maschietti, con la loro madre.
La ragazzina ha i capelli raccolti sulla nuca, come la donna del ritratto. Fra le due, sembra esserci una forte somiglianza; ed hanno lo stesso nome: Alberta.
I bambini sono i figli di Alberto Bianchi, detto “Berto”: Virginio (nato il 28 giugno del 1899) e il fratello Giuseppe, secondogenito.
Virginio è il bambino in piedi, accanto alla sedia, nella prima ed unica fotografia che lo ritrae insieme alla madre, morta di parto di lí a poco, quando egli aveva quattro anni ed il fratellino appena due.
E la donna è Alberta Orselli, nonna di Alberta Rossana Bianchi, la ragazza di cui sopra, unica figlia di Virginio.
Siamo all’incirca nel 1950 e questo accade a Massarosa, un paese distante otto chilometri dal mare, in provincia di Lucca.
Una località che, alla fine dell’800, era popolata quasi esclusivamente da pastori, contadini, braccianti ed alcuni artigiani.
E adesso, alla fine dell’anno 2002, la figlia ormai sessantaseienne di Virginio Bianchi, a centodue anni dalla nascita del padre, tenta di raccontarne la storia, in maniera del tutto obbiettiva, come potrebbe fare un’estranea...
Convinta che sarà un compito molto arduo per lei, dato l’amore addirittura eccessivo che egli nutriva nei suoi confronti e la commozione che assale la donna ogni volta che parla o scrive di lui.
Dopo la scomparsa di Alberta Orselli
A due passi dalla casa del vedovo Alberto Bianchi, rude e scorbutico falegname, alto, magro e baffuto, la chiesa parrocchiale, con le campane che fanno rimbombare di suoni le stanze a tutte le ore del giorno e la bottega dove si svolge il suo lavoro e dove spera lavoreranno i suoi figli.
Quei due piccolini da crescere, che dovrà affidare alle cure delle sue numerose sorelle, (fortunatamente ancora nubili) e di una tale Caròla, donna che prenderà in casa per i servizi.
Durante l’infanzia e l’adolescenza, Virginio va ad imparare il mestiere nella bottega del padre, prendendo dimestichezza con la pialla e la sega, con colle e vernici.
Frequenta la Parrocchia e gioca con i coetanei, come tutti gli altri bambini del paese; ma, mentre cresce tra i trucioli, respirando gli acri profumi del legno e delle resine, si crea un proprio spazio fantastico, con tanto azzurro e tanto verde, che vorrebbe riempire di tutte le immagini che gli frullano per la mente.
E, nel poco tempo libero, frequenta Callisto Bei detto Mansueto, un vicino che fa il pittore e dal quale apprende a dare forme e colori ai propri sogni.
Una foto dell’epoca, lo ritrae con il volto serio ed affilato sotto un cappelluccio a falda larga; un ragazzino cresciuto troppo in fretta, abituato alla fatica e alle privazioni.
La Caròla gli nega le uova fresche che quotidianamente raccoglie nel piccolo pollaio di Alberto e si ostina a rammendargli i calzini con fili dei colori piú strani.
Cose che gli rendono la vita ancora piú amara e lo fanno sentire tanto diverso dagli altri ragazzi che hanno una madre!
Senza parlare dei continui rimbrotti del padre, che lo vede cosí pensieroso e distratto!
Intanto Alberto, convinto di fare il bene dei figli, dopo un po’ decide di cambiare mestiere ed apre un emporio con rivendita di sali e tabacchi proprio sulla piazza della chiesa.
Praticamente l’unico negozio di una certa importanza che esiste nella zona.
Ma, cosa ti combina quello scapestrato di Virginio, invece di pensare a far soldi?
Egli si ribella!… Punta i piedi e vuole a tutti i costi iscriversi all’Istituto di Belle Arti di Lucca.
La sua presa di posizione, viene aspramente contestata dal padre ed anche dal fratello quindicenne; ma il ragazzo non cede e, a costo di fare la fame, riesce a strappare il consenso paterno.
Cosí, mentre la prima guerra mondiale imperversa, Virginio, un po’ in treno, altrimenti a piedi o in bicicletta, ogni mattina di buon’ora si arrampica su per i tornanti del Monte Quiesa, ancora impervi e sterrati, d’inverno coperti di neve gelata, con due pezzi di mattoni riscaldati sopra le braci del focolare; uno per ogni tasca della misera giacchetta dai gomiti consumati.
È il piú grande dei compagni di corso, che subito lo chiamano “Maestro” perché da tutti è ritenuto il migliore e perché generosamente si presta in ogni occasione ad aiutare gli altri meno dotati.
Tra i suoi compagni piú cari, gli scultori Rita Marsili, Niccolò Codino e il pittore Mario Palagi.
Gli insegnanti preferiti, Alceste Campriani per la pittura e Umberto Prencipe per il disegno.
Energico e vivace, si scopre dotato pure di un forte senso umoristico; ed è benvoluto da tutti, anche se la sua satira a volte diventa pungente. Intraprendente ed appassionato, si innamora facilmente delle compagne di classe. Tant’è che un giorno, rincorrendo una di queste con l’intento di baciarla, fa cadere una statua di marmo collocata in un corridoio della scuola, mandandola in mille pezzi.
Frattanto, però, le sorelle del padre si sono sposate e sono andate a vivere per conto proprio. Tre di loro, addirittura in America, compresa la zia Niobe che egli adorava. Per Virginio la separazione è un evento molto doloroso, dato il grande affetto che lo legava a quest’ultima! A Massarosa sono rimaste soltanto la Clotilde e la Iole, anch’esse sposate, ambedue con figli e con casa propria; ed il giovane artista, soffre di solitudine…
Poi, finisce la guerra, lasciando, come sempre succede, rovine e miseria e tanti problemi da risolvere. Virginio comincia, per necessità, ad eseguire alcuni lavori: illustrazioni e vignette che spedisce alla “Domenica del Corriere” o al “Corriere della sera”, con la speranza che vengano pubblicate. È di questo periodo “Il soldato morente”, ritrovato dopo il 1970 in casa di un collezionista di Quiesa ed esistono vignette umoristiche eseguite a china, di proprietà di alcuni antiquari, che risalgono agli ultimi anni di scuola.
Altre immagini create per la pubblicità, sono del 1921, anno in cui gli viene rilasciato il diploma con il massimo dei voti (10 punti su 10) e gli viene assegnata una borsa di studio con la quale potrà frequentare a Roma un pensionato artistico e perfezionarsi nella disciplina del ritratto. (A proposito del diploma, non si capisce perché Virginio non abbia fatto correggere il proprio nome che, nel documento, è stato indicato erroneamente come “Virgilio”. Fatto che creerà, in futuro, parecchie ambiguità a proposito della vera identità dell’artista.)
Durante i due anni trascorsi a Roma, si fidanza in Ciociaria, dove dipinge diversi paesaggi.
Nel 1922, esegue un ritratto del Cardinale Tacci, commissionatogli tramite il Parroco di Massarosa Don Costantino Nannini, che gli viene pagato bene, come attesta uno scritto autografo inviatogli dal Cardinale medesimo. Esiste anche una lettera di un personaggio importante, non identificato dalla firma, che prega Trilussa di esaminare i lavori del Bianchi, nell’eventualità di poterli usare come illustrazioni alle proprie poesie.
E, dell’epoca, rimangono deliziosi paesaggi di “piccolo formato”, oltre ad un ritratto del sopra citato Don Nannini, conservato oggi nella Biblioteca Comunale di Massarosa.
Tornato a casa, ricomincia a frequentare gli amici di sempre: Callisto Bei, il sarto Giannini, i falegnami Lombardi e De Santi (detto Moschino), il calzolaio, anch’egli un Lombardi (Luigi, detto Gigino), l’imbianchino Dante (di Bio) e molte altre simpatiche persone del paese.
In paese c’è anche un bambino, nato nel 1920, che gli si affezionerà e poserà per lui: Aldo Valleroni, che diventerà poi famoso come musicista, giornalista e scrittore e conserverà con cura i ritratti straordinari eseguiti per lui da Virginio Bianchi.
Inoltre, Virginio troverà anche in famiglia motivi di allegrezza, all’arrivo dall’America di alcuni cugini, figli di uno zio paterno, sensibile artista, dedito alla pittura e con la passione per il violino.
I tre ragazzi, Fernando, Lorenzo Renato e Virginia Bianchi, ricambieranno il grande affetto che il cugino nutrirà sempre per loro, riscontrando in essi la sua stessa indole.
E, in questo clima favorevole, egli si caricherà di nuove energie, guardando al futuro con un certo ottimismo.
L’entusiasmo, infatti, era già diminuito ben presto, all’atto di eseguire un lavoro di una certa importanza, commissionatogli dal Parroco di Stiava (frazione del Comune di Massarosa) che si era poi rivelato una grandissima delusione.
Si trattava di affrescare il vano dove era collocato l’organo della piccola chiesa, dipingendovi alcuni “angeli cantori”.
Virginio si era messo d’impegno ad eseguire gli affreschi secondo i metodi tradizionali ed aveva dipinto quattro grandi angeli, due a destra e due a sinistra dell’organo, coperti da tuniche mosse e leggère, ognuno con uno strumento in mano.
Angeli con i capelli corti tagliati alla “paggetto”; eteree fanciulle degli anni ’20, con le bocche socchiuse e gli occhi ispirati.
Ma il lavoro non era piaciuto al parroco e nemmeno ai parrocchiani, che avevano gridato allo scandalo per quegli angeli con la “garçonne”.
A quella dimostrazione di “bigottismo”, Virginio si era rifiutato di modificare l’aspetto di quelle sue creature ed era uscito infuriato dalla chiesa di Stiava con l’intento di non rientrarci mai piú.
In seguito, da un ignoto “restauratore”, a quegli angeli verranno allungati i capelli; quattro mantelli copriranno loro le chiome e le spalle e quattro aureole “regolamentari” rifiniranno il tutto.
Si può immaginare con quale risultato, dato che l’ignoto non si preoccuperà affatto di modificare anche il resto del dipinto, che rimarrà lí, come un aborto plurimo, a schernire per tutta la vita il Bianchi che lo aveva concepito in maniera completamente diversa.
Questo fatto, o meglio “misfatto”, influirà profondamente sulla personalità di Virginio, il quale, cresciuto all’ombra del campanile, in una famiglia molto legata al Cattolicesimo, per il resto della vita odierà tutti i preti e arriverà a rinnegare qualsiasi cosa abbia a che fare con le pratiche religiose.
Tanto piú che, il Parroco di Stiava, poco tempo dopo l’accaduto, getterà la tonaca alle ortiche per fuggire con la giovane “Perpetua”, confermando cosí l’ironica tesi sostenuta da Virginio che «I preti non sono altro che uomini a metà, ai quali manca purtroppo la metà migliore!»