Virginio Bianchi - Il pittore della buona gente
di RENATA GIAMBENE
Presentazione scritta nel 1980 da Renata Giambene Minghetti in occasione delle mostre retrospettive di Virginio Bianchi nel decennale della morte.
È scomparso undici anni fa, Virginio Bianchi, eppure oggi, ad una sua mostra, ho udito parlare della sua arte rimasta giovane, con tutta la carica di umanità che si sprigiona dalle sue tele, dove le creature sono reali e sofferte nell’atto della dedizione al lavoro, immerse in paesaggi soffici di colori, mai urlanti, confessati, diremmo, da un uomo che seppe fino ai suoi settanta anni, offrire ogni giorno tutto quello che nel suo animo di poeta-pittore riusciva a contenere ed a riproporre nelle sue tele.
Vorremmo, per questo autore già noto ma non quanto ci sembra meriti, attirare l’attenzione dei critici più operanti, degli amatori d’arte, poiché pensiamo sinceramente che le sue opere dovrebbero di diritto entrare nei musei nazionali e, per questo, sapendolo nativo di Massarosa, crediamo opportuno richiamare l’attenzione delle autorità che in lucchesia, per grazia di sentimenti, hanno spesso dimostrato una particolare sensibilità ed una amorosa gelosia dei valori da non disperdere dei propri artisti.
Il suo, è un modo personalissimo di condurci nei suoi paesaggi che vanno al di là di qualsiasi scadenza; né si può dire traggano da alcuno, se non dall’umore dell’artista, una fisionomia spiccata, che ci permette di riconoscerlo senza i soliti accostamenti di moda, nella lettura di un artista, che possono dare in certo modo la misura delle acquisizioni del critico ma, mai, quelle dell’autore.
Ogni pittore, ogni poeta, ogni artista è sempre un suo da sé che ricompone i pezzi del suo tormento-vita, del suo amore-vita, del suo paesaggio-vita; e Virginio Bianchi è così netto e limpidamente aperto a farsi riconoscere, attraverso le sue tele, che a volerlo accostare a questo o a quello ci parrebbe, in certo qual modo, di recargli un’offesa; poiché proprio dai suoi quadri è visibile la sua scuola, la sua ascesa, di pezzo in pezzo, nella dimensione che ce lo fa conoscere, quasi che si potesse parlare con lui attraverso i suoi colori.
Parlare ma a voce non troppo alta, parlare senza dire sciocchezze o cose di dubbio gusto, parlare seriamente e con amore della vita e della natura; parlare lasciando il passo a chi ha fretta, poiché il Bianchi, indubbiamente, non era pittore da spintoni, da prevaricazioni; semmai proprio uno che si apparta e lavora con impegno, alzando ogni tanto il volto per guardare meglio dentro le cose, negli occhi chiari della figlia, materiando di saggezza anche le sue pitture, che hanno il destino delle cose che si debbono mantenere per farci sentire più umani, senza ostilità o rancori.
La pittura di Virginio Bianchi è un segno di poesia, (sappiamo che questo artista ha lasciato anche degli scritti), che si manifesta nella sofferta , ma sempre contenuta, stanchezza dei volti, nell’improvviso rigoglioso fiorire di un paesaggio, nella rara fattura delle nature morte, ognuna, a sé, motivo di un dialogo interiore fra colui che le ha dipinte ed il passante che sosta davanti ad ognuna di esse lasciando nell’aria i commenti veri, quelli senza “ismo”, goloso nel ritornare a vedere più e più volte i pezzi esposti, di portarsi via negli occhi una fetta di ristoro.
Mai portato alla polarizzazione di sé, Bianchi si immette nel suo lavoro cercando con la sua capacità di trovare collocazioni nuove alle ombre e alle luci, con effetti che sono notabili e di alto valore; riproponendo, in specie negli ultimi paesaggi, la sua armonia di uomo che credeva e sapeva animare il suo spazio interiore in creazioni cariche d’umana suggestione, lasciando al colore, ai colori tendenti ai marroni, ai verdi, ai rossigni spenti, un loro eloquio.
Oggi vorremmo sapere: quanti sanno ancora parlare agli altri attraverso un paesaggio, una figura?
Il taglio secco del tempo conduce uomini e cose a riproposte scartate senza senno ed i migliori ritornano nel vano illuminato della loro finestra.
Virginio Bianchi, dalla sua, ci sorride ed è una certezza.
Renata Giambene Minghetti