Dal 1960 al 1970
LA VERA E PURA ESSENZA DELLA VITA
La vita di Virginio Bianchi narrata dalla figlia
Capitolo 6 / 6
Nel mese di dicembre del 1959, Virginio Bianchi espone alla G.A.I. (Galleria d’Arte Internazionale) a Firenze, quindi, nel 1960 ad Arezzo e Montevarchi.
E nel 1962 è a Grosseto, dove tornerà nel 1964.
Virginio Bianchi espone al “Centro delle Arti” a Grosseto
Presentazione del Direttore Giovanni Nicosia
Pittura di un solitario è questa di Virginio Bianchi.
Il suo giro d’orizzonte spazia lungo le plaghe della Lucchesia (Virginio Bianchi vive a Massarosa) e potrebbe cosí apparire circoscritto a emozioni paesaggistiche di determinati luoghi.
Ma Virginio Bianchi è anche un poeta e ciò che sente sa trasformarlo in accenti di universale linguaggio; per cui queste dolci colline, questi verdi pascoli, questi cieli limpidi o corruschi, queste acque stagnanti o lievemente increspate dalle brezze, vanno al di là di ogni localizzazione di spazio e di luogo e si idealizzano in un immemore tempo nel quale gli uomini si potranno sempre incontrare in comunione di sentimenti.
Virginio Bianchi realizza il suo mondo interiore in espressioni di un post-impressionismo aereo e luminoso, dalle pennellate secche e precise, sebbene libere e istintive.
Caratteristica del suo stile è la leggerezza con la quale sa raccogliere momenti emozionali di un ambiente, di un’atmosfera.
Ma questo affidarsi all’emozione di un lasso di tempo relativamente breve, se da un lato dà a Bianchi la possibilità di creare con spontaneità e freschezza, dall’altro può costituire il pericolo di una costruzione labile e priva di appoggio e sulla quale è impossibile tornare sopra.
Bianchi ne è consapevole; e, a parte il fatto che confessa di distruggere molto di ciò che dipinge, sa dove e come puntare i pilastri della sua arte, a ciò sospinto dallo studio severo e dalla lunga esperienza: il taglio delle inquadrature che lasciano sempre immaginare una realtà che non finisce nella focalizzazione momentanea, la sintesi dei tratti essenziali, un cromatismo che si giustifica in un’astrazione di lirico contenuto, l’eliminazione della ricerca degli effetti cui la tecnica impressionistica tende spesso fatalmente.
Le opere migliori sono senza dubbio quelle in cui Virginio Bianchi tratta gli acquitrini, i ruscelli, i laghi. È un pittore che ha una particolare predilezione per le acque.
Notevole per vibratile profondità “Mattino d’agosto”, per impostazione tonale “Peschi in fiore”.
Luminoso e costruito con maestria “Pollo spennato”, pregevole per tattile plasticità “Sera sullo stagno”.
Dopo il 1964, la pittura di Bianchi, in continua evoluzione, volge ad una definitiva libertà da ogni schema, ad una estrema sintesi, all’espressione di sé, del suo io piú profondo.
Rivisita le sue vecchie opere, trasformandole, lavorando incessantemente, sciabolando con il pennello in una desiderata e raggiunta “felicità del dipingere”, creando con pochi ed ampi gesti un “Tramonto sul mare” o esplosioni di “Girasoli”, o fuochi d’artificio di “Giunchiglie” azzurre e folate di vento tra i canneti in “Prima del temporale”.
Ormai non è piú, come qualcuno lo aveva chiamato agli esordi, un “pittore del piccolo formato”.
Il suo pennello corre su ampi spazi, al di là dell’immagine, rivelando un mondo forse fino a quel momento ritenuto irraggiungibile dall’artista medesimo.
Ma è destino che Virginio non possa godere per molto della libertà e della felicità cosí duramente raggiunte.
Il diabete che, come già avevamo detto, si era sommato ai suoi molti malanni, quasi improvvisamente si aggrava, lasciandogli solamente due decimi della vista.
E allora lui, già daltonico, strabico, impedito dagli acciacchi nello svolgimento delle quotidiane necessarie mansioni, sopravvissuto a due guerre, alle persecuzioni fasciste e tedesche, alla fame e a mille delusioni e incomprensioni, ora è veramente distrutto.
Cerca di lavorare con la lente d’ingrandimento, ma senza riuscirvi.
Si sfinisce nei tentativi di realizzare qualche immagine, di dar vita a quei sentimenti che non sa piú come esprimere.
Anno 1969
Forse l’unica consolazione di quest’ultimo tristissimo periodo, è rappresentata dai due nipotini; Marco, di dodici anni, che il nonno adora, e Simone, di pochi mesi.
Virginio è molto tenero con loro, ed anche con la figlia, che egli va spesso a trovare, a Lucca, riempiendole la casa di regali.
Ma, nel mese di novembre, muore improvvisamente il fratello Giuseppe, lasciando in famiglia, oltre ad un immenso dolore, molti problemi legati all’eredità della casa paterna.
Dopo solo cinque mesi, un altro lutto: il cognato Bernardino Massaria, marito della sorella di Enrica, con il quale Virginio aveva ottimi ed amichevoli rapporti, muore anch’egli all’improvviso.
Questi durissimi colpi da sopportare, riducono Virginio senza piú stimoli, senza parole.
Egli sta per ore rinchiuso nel buio di una stanza e ingoia tanti di quei medicinali da non avere piú la forza di stare in piedi.
La moglie e la figlia tentano invano di rincuorarlo. Riescono soltanto a convincerlo che, almeno per festeggiare la Pasqua, sarebbe bello stare tutti insieme a Lucca, a pranzo con i nipoti; cosa che, in tanti anni, egli non ha mai voluto fare, per quel vecchio rancore contro il genero che non gli è entrato mai in simpatia.
E, per il giorno della Pasqua 1970, Virginio ed Enrica sono a casa di Rossana, felice di quest’ultimo dono che il padre ha acconsentito di farle. La tavola è veramente “da festa grande” ed il cibo è squisito.
“Per un giorno, nella vita, non pensiamo ai malanni!”
E il nonno gioca con il piccolo Simone, vivacissimo, chiamandolo “burattino... burattino mio!.” e si abbuffa su ogni portata, elogiando la figlia alla quale dichiara che non avrebbe mai pensato potesse diventare “tanto brava”.
Prima di ripartire, viene scattata una foto di gruppo nello stretto corridoio del piccolo appartamento: i nonni, raggianti, con i due bambini.
Che bello che tutto si sia risolto in perfetta armonia! Mai, negli ultimi anni, Rossana aveva visto il padre cosí felice e rilassato! Ed ora spera ardentemente che, da quel giorno, lo stato di salute di lui possa cambiare in meglio.
Poco tempo dopo, invece, il 25 aprile 1970, Virginio lascia questo mondo nel giro di mezz’ora, alle 9:30 del mattino.
La moglie, non ce l’ha fatta a tornare dalla farmacia in tempo per fargli inghiottire il farmaco che avrebbe potuto salvarlo.
Sul rullo della macchina da scrivere, rimane una lettera straziante di Virginio, colma di errori, che testimonia la sua incapacità di sopravvivere senza la ricchezza della vista, privo dell’aiuto della pittura.
Ma egli, nella morte, sorride. Un sorriso quasi ironico.
Come quando, seduto sulle panchine in piazza del Comune, studiava i passanti per farne la caricatura.
Come volesse far capire ai suoi cari che egli ora è sereno e finalmente in pace.
Sui cavalletti, alcune opere incompiute e, nelle casse di legno dello studio, coperte da tendoni di juta spruzzati da mille colori, tutti i suoi “bozzetti ad olio” che mai aveva voluto vendere.
E tanti splendidi acquerelli, preparati da tempo per la mostra che avrebbe dovuto fare di nuovo a Palermo.
Una seconda poesia scritta per Virginio da Bruno Fattori, dopo la morte dell’amico.
RICORDANDO
VIRGINIO BIANCHI
Ascolto e non intendo
le scambiate parole
di amiche; dietro i verdi
evonimi, nel sole,
due voci. E i monti vedo
ove immutato regna
l’atto di Dio; e i campi
in cui l’uomo disegna
sua sorte e le fatiche
dei giorni: questo antico
concerto tra le cose
e l’anima. E te, Amico
perduto: perché resta
l’opera tua, dove
è questa pace, questa
musica che si muove
per forme e per colori
dolce e pensosa: questa
certezza d’una stella
che schiude fra tempesta
la notte. Umile guardo
con gli umili l’eterna
bellezza, oltre gli scuri
enigmi che squaderna
informi la inquieta età:
leggo in quei visi
che hai ritratto,
la storia umana di sorrisi
senza sorriso; quasi
le incomprese parole
che in modulati accenti
sento confuse al sole.
Bruno Fattori
Dopo il 1970
Da quella data, ogni qual volta le opere di Virginio Bianchi sono state esposte al pubblico, la sua figura ha acquisito dimensioni sempre piú grandi. E il suo nome, per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, significa una vita vissuta per “l’ Arte” e un amore smisurato per tutte le cose “buone” che esistono su questa terra.
La campagna, le risaie, il padule, la vita agreste, con le mondariso, le raccoglitrici di olive, i pescatori sui barchini, i contadini nei campi; ma, soprattutto, i bambini, ritratti con una dolcezza infinita.
E le madri da “Maria” fino all’umile madre che, con un bambino in braccio, sta in mezzo ad una risaia desolata, in piedi, all’incrocio tra due argini che s’incontrano al centro della tela.
La donna, scarna e in atteggiamento di estrema stanchezza, ha un vestito rosso, povero e informe.
Il bimbo ha il capino nudo, senza capelli, ed il corpo appena ricoperto da uno straccetto bianco.
Pochi elementi, pochi colori; ma in quel quadro, donato poi dalla famiglia al Museo di Sant’Anna di Stazzema, si legge sicuramente piú di quanto Virginio fosse riuscito a narrare della propria vita, nelle duemila pagine del suo romanzo, distrutto anche quello in un eccesso d’ira nella stufa di cucina, dopo il matrimonio della figlia.
C’è un modo di esprimersi personale e singolare, completamente libero da schemi e tradizioni, con sintesi, efficacia e scarsità di “materia”, ed assoluta mancanza di orpelli.
E c’è un profondo senso religioso, in quella croce in diagonale, dalla prospettiva rovesciata!
Questo per quanto riguarda l’artista Virginio Bianchi.
Per quanto riguarda l’uomo, c’è da sottolinearne l’onestà, la perseveranza, ed anche la forza, quantunque le spesse lenti dei suoi occhiali si siano inumidite molte volte di pianto.
Dietro quelle lenti doppie sovrapposte, che lo avevano fatto soprannominare da alcuni paesani il “quattr’occhi”, c’era uno sguardo che ha saputo cogliere, oltre gli strati della terra e la profondità dei cieli, la vera e pura essenza della vita.